MARI

Tuesday, March 3, 2009

La lezione del professor G.

Strano paese l'Italia. Ormai a dire qualcosa di sinistra è la destra. La volontà di consegnare Giorgio Gaber all'eternità dei libri di testo, non può che essere condivisa. Poi però si tratta di capire perchè, ad averci pensato, sia la destra e non la sinistra. Perfino nel settantennale della sua nascita, le attenzioni celebrative della "intelligenza" di sinistra sono state totalmente rivolte a Fabrizio De Andrè. Anche De Andrè era un artista scomodo, Gaber era spietato, innamorato del dubbio, affascinato dalla provocazione. Non a caso, negli ultimi anni, la sinistra lo aveva dimenticato. Lui arrivò a mettere in discussione la sinistra: "Non sono più compagno ne femministaiolo militante, io sono diverso e certamente solo,quando è merda è merda, non ha importanza la specificazione". Conoscere Gaber non è facile. A volte scriveva apposta per non piacere, bravo come nessuno a... .
Enorme e implacabile, anzitutto sul palco. Che riempiva. Nonostante la malattia, sino alla fine. Nel Sessanta era l'artista più amato dalla tv e c'è chi ancora pensa che il decennio più importante di Gaber sia stato quello: una maniera per annacquarne il messaggio. Per "facilitarlo". Ma Gaber mica voleva essere facile. Poi la scopertà del teatro-canzone, il rifiuto della tivù. Il Settanta del "libertà e partecipazione", gli Ottanta del "teatro di evocazione", nuovamente bollati dalla sinistra. Quindi il ritorno, con Tangetopoli, alla sfera pubblica.
Gaber non era di destra. Figurarsi. Nè il primo nè l'ultimo. Lo terrorizzava Berlusconi e più ancora il "berlusconismo che c'è in noi": quel desiderio di primeggiare a qualsiasi costo, l'arrivismo fine a se stesso, la dittatura del mercato. Solo che amava troppo gli smarcamenti, e troppo poco i mischiamenti, per piacere alla sinistra. Che infatti gli rinfacciava il matrimonio con Ombretta Colli, divenuta negli anni politica di Forza Italia, e che disertò il suo funerale. La sua produzione può essere letta come un disperato tentativo di appartenere a qualcosa, salvo poi scoprire (ogni volta) che Gaber era solo di Gaber. E di chi lo ascoltava, inseguendone i monologhi come fossero balsamo per cervello e cuore. Se si fosse ritrovato sui libri di scuola, avrebbe arrossito. Sperando però, al tempo stesso, che i ragazzi ne capissero, o anche solo intuissero, l'irrinunciabile anelito alla speranza. Alla libertà. Al riso, al pianto. Quella sua benedetta capacità di indignarsi, che dopo un monologo ti rimaneva attaccata alla pelle, e che oggi chissà dove è finita...

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